venerdì 9 ottobre 2009

Ippolita degli Azzi, eroina aretina



In onore a tutte le donne aretine....l'esempio di Ippolita


di Romano Valli
Ippolita degli Azzi alla quale il popolo Aretino anelante di riscossa dopo la sconfitta di Campaldino e desideroso di aggrapparsi ad un simbolo che lo riscattasse dalla sconfitta, le attribuì ben presto gesta leggendarie.

Ippolita fu donna,madre, moglie e guerriera. Nacque ad Arezzo e appartenne alla nobile casata degli Azzi. All’indomani dell’11 giugno del 1289 i capi ghibellini ed i giovani della migliore nobiltà fiorentina erano tutti morti compreso il “vescovo guerriero” e l’alleato Buonconte da Montefeltro, capitano dell’esercito, del quale non fu ritrovato nemmeno il cadavere. Nei giorni successivi allo scontro, i fiorentini presero Bibbiena.

Infine distruggendo e saccheggiando tutto al loro passaggio giunsero sotto le mura di Arezzo. La cinsero d’assedio, ritenendo di poterla espugnare facilmente. Ma non avevano fatto i conti con gli eroici difensori, considerando che a difendere la città erano rimasti solo donne vecchi e ragazzi. Anche se in realtà vanno considerate le malconce milizie scampate a Campaldino.

Ed è in questo contesto che si inserisce Ippolita degli Azzi, ad elevarsi al di sopra a tutti i cittadini la sua figura leggendaria e bella. Informata della eroica morte del suo sposo a Campaldino, giurò vendetta e impugnata la spada e il gonfalone del comune salì sulla torre più alta della città, e fatte suonare a distesa le campane, raccolse tutti i cittadini, ed al grido “vittoria o morte” li trascinò sulle mura incitandoli per una suprema e disperata difesa.

Così l’agguerrito esercito fiorentino, si trovò improvvisamente arrestato e respinto al suo giungere sotto le mura della città. Gli aretini dall’alto delle improvvisate difese avevano accolto gli assalitori con lancio di sassi, pece e acqua bollente, seminando tra le loro fila numerosi morti e feriti. Ed ecco un giorno un insolito clamore di trombe, provenienti dal campo nemico, che fece accorrere sulle mura tutti gli assediati ed un triste spettacolo si presentò ai loro sguardi.

Poco lontano nel mezzo di un prato, era il figlioletto di Ippolita rapito il giorno prima in un’incursione nemica. Il piccino piangendo gridava a gran voce mamma! mamma! Mentre un soldato faceva balenare sulla testa dell’innocente un acuminato pugnale. La tragica scena agghiacciò il sangue nelle vene degli aretini, un alfiere si avanzò facendo cenno di parlare, con voce tonante e sprezzante disse “o la resa della città o la morte di Azzolino”.

Seguì un silenzio glaciale degli aretini, ma ecco sull’alto delle mura comparire Ippolita degli Azzi, muta e sprezzante, le braccia incrociate fieramente sul petto! Poi l’intrepida donna avanzatasi sul limite estremo di un bastione, rivolgendosi quasi in atto di sfida verso i fiorentini, gridò “barbaro sfoga la tua rabbia su codesta innocente creatura.

Non per questo ti vanterai di aver superato gli ostacoli che hai dinanzi e che dovranno costarti molte vite e fors’anche la tua. Non per un fanciullo avrai il dominio su centinaia di vite. Colpisci dunque, viva la libertà”. Tutta questa forza di carattere destò profonda impressione tra gli stessi fiorentini, che la vita del piccolo Azzolino fu risparmiata.

Ci furono in seguito altri tentativi e stratagemmi escogitati dai fiorentini per obbligare l’intrepida Ippolita a consegnare le chiavi della città tutti tentativi andati a vuoto. Un giorno, un araldo dell’esercito fiorentino annunciò che il duca di Narbona avrebbe riconsegnato a Ippolita il proprio figlio come gesto di ammirazione per la sua fierezza. Di questa riconsegna fu incaricato il capitano Rinaldo de Bostoli, ex cittadino di Arezzo, scacciato per fazione di parte. Calata la visiera, fu introdotto in città.

Condotto dinanzi a Ippolita, alzata la visiera e ponendosi in ginocchio riconsegnò il figlioletto nelle sue braccia, mentre dalle labbra del guerriero uscivano parole dolci e soavi d’amore.

Ippolita ne fu commossa perché nutriva simpatia per Rinaldo bello, forte e audace; ma in quell’ora solenne al di sopra di ogni passione veniva la patria. Rinaldo ascoltato le fiere parole, si congedò e rientrò al campo dei fiorentini. Il giorno seguente all’alba, Ippolita, alla testa degli aretini, usciva cautamente dalla città e avvicinandosi al campo avversario dava fuoco alle tende e alle macchine da guerra.

Al bagliore delle fiamme si destarono i fiorentini e la battaglia divampò terribile. In mezzo a loro era Ippolita bella e sublime eroina. Messer Rinaldo vide la sua donna in pericolo e corse a difenderla. Anzi la vide barcollare e cadere al suolo ferita. Quindi facendosi largo tra i combattenti, e menando grandi e potenti colpi, si parò dinanzi a lei e come una belva abbattè tutti coloro che cercavano di avvicinarsi lasciando così agio agli aretini di trasportare dentro le mura la loro intrepida Ippolita, mentre Rinaldo veniva colpito da mille colpi, redimendosi, con una gloriosa morte per amore dal sacrilegio di aver portato le armi contro la sua città.

Il duca di Narbona saputo quello che era avvenuto decise di dare l’assalto generale. Ma ecco che sulle mura ancora una volta apparve quella donna con la spada in pugno, dritta fiera, incoraggiando i suoi soldati a continuare la lotta. Il duca di Narbona si vide perduto, intorno a se il fuoco, il terreno ricoperto di cadaveri e fu allora che diede l’ordine di ritirarsi e abbandonare l’assedio. Grande fu l’esultanza del popolo aretino per la vittoria, dovuta soprattutto all’audacia, al coraggio e all’eroismo della loro grande eroica concittadina: “Ippolita degli Azzi”.

di Romano Valli

5 commenti:

Unknown ha detto...

La Battaglia di Campaldino del 1289 segnò profondamente la storia della città di Arezzo nei secoli che seguirono. Tutto ebbe inizio quando la Firenze Guelfa cominciò a guardare con timore l'accerchiamento Ghibellino che, in breve, l'avrebbe chiusa nelle proprie terre. Pisa sulla costa le impediva lo sbocco al mare, mentre Arezzo, più a sud, costituiva un muro invalicabile verso le Marche e verso Roma.

Il mondo, inesorabilmente, stava cambiando: L'impero, il sogno degli Hoenstaufen e di Federico II, era in via di declino. A Tagliacozzo, nel 1268, gli Svevi avevano ricevuto un duro colpo: Carlo d'Angiò aveva "divorato" in men che non si dica l'esercito di Corradino. Ma le insegne Ghibelline non si erano abbassate: la lotta continuava e la Toscana ne divenne ben presto protagonista.

Arezzo era di sangue Ghibellino fin dal 1287, anno in cui aveva visto il rientro del vescovo Guglielmo degli Ubertini, già ultrasettantenne, indomito guerriero con forti appetiti terreni. In breve tempo il prelato si era sbarazzato del governo popolare di Guelfo di Luca. Bandì poi dalla città i perdenti, tra cui le famiglie dei Bostoli e, contemporaneamente, acconsentì al rientro degli Uberti, dei Cianti, dei Fifanti e degli Scolari.

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Unknown ha detto...

Nella primavera del 1288 i fiorentini, assieme agli alleati senesi, misero sotto assedio Arezzo. Gli eroici cittadini resistettero, motteggiando dalle mura gli assedianti. Alla fine i senesi, stremati, decisero di riprendere la via di casa, ignari della sortita Aretina guidata dal valoroso Buonconte da Montefeltro. Colti alle spalle, impreparati, vennero sbaragliati. Guglielmino, il vescovo guerriero, conoscendo la forza di Firenze tentò fino all'ultimo la strada dipomatica. Vi sperò fino al 1289...ma ormai era tardi...la città Toscana era determinata a rompere l'accerchiamento...Le insegne di guerra furono consegnate il 13 maggio. Fu preparato un campo presso Bagno a Ripoli con l'intenzione di muovere verso Arezzo passando dal Valdarno. Tenuto consiglio, su suggerimento di traditori Aretini, i guelfi decisero di passare per il valico della Consuma. Questa scelta inconsueta fu determinante per le sorti della battaglia. Il 4 giugno, ricevuta la benedizione del Papa, i fiorentini si misero in viaggio. L'Oste guelfa contava 1900 cavalieri e 10000 fanti. Era composta da Fiorentini, Pistoiesi, Lucchesi e Pratesi, al comando del provenzale Amerigo di Narbonna e del suo tutore militare, Guglielmo di Durfort. Di riserva si contavano 200 cavalieri e un numero imprecisato di fanti al servizio di Corso Donati.L'armata Ghibellina, composta solo dal popolo Aretino, contava invece 800 cavalieri e 8000 fanti. Di riserva vi erano 150 cavalieri comandati da Guido Novello.

" Il 2 giugno 1289 sonate le campane a martello, si mosse la bene avventurata oste de' Fiorentini e le bandiere che erano a Ripoli feciono passare l'Arno e tenere la via di Pontassieve e accamparonsi per attendere tutta la gente in sul Monte Pruno, passata la Consuma in località Badiola. E, radunata la detta oste scesono nel piano del Casentino per male vie, ove se avessero trovati inimici, avrebbero ricevuto assai danno; ma non volle Dio; e vennero guastando le terre del Conte Guido Novello, ch'era Podestà di Arezzo...-" D. Compagni

I castelli Casentinesi colti di sorpresa, non poterono respingere l'avanzata dei fiorentini. Senza colpo ferire l'esercito dilagò nella pianura sottostante. Appresa la notizia dell'inaspettata strada presa dai guelfi, gli Aretini tennero un consiglio riunitosi nel Palazzo del Comune. Unanimamente fu deciso di non aspettare i nemici chiusi dentro le mura, ma di andargli incontro combattendo in campo aperto. In breve si organizzarono e mossero verso Bibbiena.A capo dell'esercito vi era Guglielmino degli Ubertini, vescovo della città, coadiuvato da Ranieri dei Pazzi del Valdarno, da Guidarello di Alessandro da Orvieto, da Guido Novello, da Buonconte da Montefeltro e suo fratello Loccio, infine ingrossavano le fila esuli Ghibellini provenienti dalle città vicine.

Alla fine, fu il giorno della battaglia l'11 giugno 1289 giorno di San Barnaba. Siamo in Casentino, nella piana che da Pratovecchio porta a Poppi, nella contrada denominata Certomondo in località Campaldino. Consapevoli della loro inferiorità numerica, ma anche consci del loro addestramento superiore, gli Aretini riposero la possibilità di ottenere la vittoria conducendo un deciso attacco al centro dello schieramento avversario. I fiorentini disposero l'esercito in tre file compatte : al centro la cavalleria con i feditori di avanguardia, sui fianchi due reparti di balestrieri e i pavesani, muniti di un grande scudo rettangolare che serviva per difendere i tiratori, dietro la cavalleria e il grosso della fanteria. Furono rafforzati i corni della fanteria che sostenevano i feditori con il preciso scopo di convogliare la carica della temuta cavalleria Aretina al centro dello schieramento. I Ghibellini si disposero pure su tre file: nella prima vi erano i feditori a cavallo, nella seconda la cavalleria infine i fanti.

Unknown ha detto...

La battaglia ebbe inizio con un fulmineo attacco della cavalleria Aretina, 300 uomini al comando di Buonconte da Montefeltro sfondarono al centro lo schieramento nemico. I guelfi di Vieri de' Cerchi serrarono le fila e ricevettero l'urto in pieno. Arretrarono, furono quasi tutti disarcionati, chi sopravvisse continuò il combattimento a piedi, con tutto ciò che riuscì a trovare, lance, asce, mazze, pugnali e spade. I cavalieri Aretini entrarono in profondità tra le linee nemiche. La lotta si trasformò, sezionandosi in sanguinose zuffe.Entrarono in azione i balestrieri. Ben protetti dalle mura mobili dei pavesi, i guelfi tiravano da distanza ravvicinata mentre con minore efficacia i Ghibellini, disturbati dall'intensa polvere, erano costretti a tiri lenti. Se la cavalleria era arretrata, le ali della fanteria ressero l'attacco e presero a stringere a tenaglia circondando i cavalieri Aretini, già bersagliati da una pioggia di frecce, quadrelle e verrettoni. Al rinforzo delle retrovie, Guillaume de Durfort, Aimeric de Narbonne e Gherardo della Vetraia da Tornaquinci opposero una contro carica diretta al centro della formazione avversaria: quando i primi due caddero, i Ghibellini si avventarono su quest'ultimo per strappargi le insegne. A questo punto fu decisivo il comportamento delle riserve. Corso Donati contravvenendo agli ordini, diresse un gruppo di feditori verso il fianco destro, scompigliando e separando cavalleria e fanteria, mentre Guido Novello che osservava la mischia dalla chiesa di Certomondo non lo imitò. La battaglia era persa... La cavalleria Ghibellina fu accerchiata e i fanti disorientati rimasero chiusi fuori. Guglielmo degli Ubertini, il vescovo-guerriero, non scelse la fuga, affrontò i nemici alla guida dei suoi, morì con le armi in pugno.

"Molti quel dì che erano stimati di grande prodezza furono vili, e molti di cui non si parlava furono stimati. Furono rotti gli aretini non per viltà, ma per lo soperchio dè nemici furono messi in caccia, uccidendoli. I soldati fiorentini, che erano usi alle sconfitte, ammazzavano; i villani non aveano pietà..."-. Croniche Fiorentine

Unknown ha detto...

Cominciò la fase conclusiva : quella della caccia agli ostaggi, alle insegne, agli equipaggiamenti e alle armi. Alla fine la terribile mattanza fu arrestata dallo scoppio di un violento temporale estivo. Sul campo vermigio rimasero morti circa 300 guelfi e 1700 Ghibellini. Più di 1000 prigionieri furono condotti a Firenze, molti perirono di stenti nelle prigioni cittadine. In seguito furono sepolti in un luogo che ancora oggi si chiama "Canto degli Aretini". L'esercito fiorentino dilagò verso Arezzo, ma la città di nuovo sotto assedio resistette spavaldamente; combatterono strenuamente, fianco a fianco, uomini donne e bambini. Una donna sopra tutti combattè per l'onore della città, Ippolita degli Azzi.

" Non è meraviglia se ad Arezzo culla di uomini illustri nelle armi...debba i natali a quella Ippolita degli Azzi che capitanò i suoi cittadini, allorchè la rabbia dè Guelfi Toscani...contro quella desolata città, che difettando di campioni sarebbe sicuramente soggiaciuta...Il di lei sposo insanguinato...con altri cento valorosi guerrieri i campi di Campaldino, onde Ippolita a non mostrarsi degenere dalla virtù del marito, scorto appena dall'alto di una torre l'esercito de' nemici, suona a furia le campane, raccoglie i cittadini...seguita dalle donne sale alle mura per difenderle...Intanto alcuni guelfi per segreto passaggio cercano di penetrare in città; ma Ippolita lascia gli steccati e le mura ed esce, combatte e di sua mano ferisce il condottiero nemico. Il giovane figliuolo dell'intrepida donna...ferocemente combatte ma è fatto prigioniero...Esce seguita da schiera di magnanime donne dalla città, incendia torri di legno ed altre macchine da guerra dell'inimico lo combatte in aperta campagna, nella confusione della mischia ritrova l'amatissimo filiuolo Azzolino, lo salva; rientra vincitrice in Arezzo e cade ferita..."- G.B.S.

Un'ultima nota storica, il ben noto Dante Alighieri partecipò alla battaglia di Campadino con i guelfi fiorentini, combattendo tra le fila dei feditori.Così, nel Canto V del Purgatorio descriverà la morte dell'eroico Buonconte da Montefeltro : -"Ed io a lui: Qual forza o qual ventura - Ti traviò si fuor di Campaldino - Che non si seppe mai la tua sepoltura? - Oh! Rispos'egli, appiè del Casentino - Traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano - Che sopra l'Ermo nasce in Appennino. - La 've 'l vocabol suo diventa vano - Arriva 'io forato nella gola,- Fuggendo a piede e sanguinando il piano.- Quivi perdei la vista, e la parola - Nel nome di Maria finì, e quivi - Caddi e rimase la mia carne sola."-

A Campaldino quel giorno si scannarono più di 20000 uomini...

Unknown ha detto...

I termini guelfi e ghibellini indicano le due fazioni che dal XII secolo sostennero, nel contesto del conflitto tra chiesa ed impero e del movimento comunale, rispettivamente la casata di Baviera e Sassonia dei Welfen (pronuncia velfen, da cui la parola guelfo) e quella di Svevia degli Hohenstaufen, signori del castello di Weiblingen, anticamente Wibeling (da cui la parola ghibellino), in lotta per la corona imperiale dopo la morte dell'imperatore Enrico V (1125), che non aveva eredi diretti.

All'interno delle città, la stessa dicotomia, superando il tradizionale significato di lotta politica tra papato e impero, si ripropose poi nella lotta tra le fazioni guelfa e ghibellina della popolazione, entrambe volte ad esercitare dominio del comune. Alcune volte le due fazioni coesistevano, come a Firenze, dove la lotta comincio` dopo l'uccisione di Buondelmonte de' Buondelmonti, dagli Amidei. Per accrescere la loro forza sia le città guelfe sia quelle ghibelline si riunirono in leghe opposte le une alle altre: così dalla seconda metà del XIII secolo la guelfa Firenze ingaggiò con i suoi alleati contro la lega ghibellina di altre città toscane (Arezzo, Siena, Pistoia, Lucca, Pisa), un lungo conflitto, che ebbe come termini estremi la battaglia di Montaperti del 1260 e quella di Altopascio del 1325.

Nella seconda metà del XIII secolo dopo il 1266 data della battaglia di Benevento si ha in Italia una vera e propria crisi del partito ghibellino che aveva perso il suo maggior apporto; cioè la dinastia Sveva che ebbe inizio con Federico Barbarossa per poi concludersi con le sconfitte di Corradino e Manfredi di Sicilia tra il 1266 e il 1268. A questa crisi ne consegue un forte progresso per i guelfi che predominano l'Italia appoggiati militarmente sia dal re di Napoli, Carlo I d'Angiò e sia dai vari Papi e così i guelfi arrivano a rimpossessarsi di Firenze soprattutto grazie alla famosa battaglia di Colle Val d'Elsa del 17 giugno 1269 quando i guelfi colligiani e fiorentini (insieme ai loro alleati) inflissero una sonora sconfitta ai ghibellini senesi.

Per approfondire, vedi la voce Guelfi Bianchi e Neri.

Ma poco dopo, il circolo di potere dei guelfi sarà profondamente compromesso da una crisi interna che permetterà alle signorie di modificare lo status quo: infatti i filo-papali si scinderanno tra guelfi bianchi e guelfi neri. Questa divisione si creò, secondo un racconto del cronista storico Giovanni Villani, nella città di Pistoia all'interno della famiglia dei Cancellieri per una lite tra cugini a causa dell'alcol. I contendenti della famiglia che avevano creato disordini in città tra il 1294 e il 1296 vennero esiliati nella vicina città di Firenze dove gli uni, i bianchi, trovarono l'appoggio della famiglia dei Cerchi e gli altri, i neri, della famiglia dei Donati. Successivamente questa divisone, tra chi pur difendendo il Pontefice non precludeva il ritorno o la necessità dell'imperatore (cioè i guelfi Bianchi) e chi invece trovava indispensabile che il governo dovesse essere affidato al Papa perché "missus dominici" (mandato dal Signore), si fece sempre più aspra fino a che si arrivò allo scontro nella città di Firenze che fu vinto dai neri con il conseguente esilio di tutti i guelfi bianchi tra cui Dante Alighieri. Ciò comportò l'avvicinamento dei guelfi bianchi ai ghibellini, come prova anche il tentativo di rientrare in Firenze manu militari con l'aiuto di Scarpetta Ordelaffi, ghibellino signore di Forlì.